L’arte, la fatica, il destino di un popolo: la Sicilia negli occhi di Giuseppe Migneco

Mentre il fascismo imponeva l’autarchia, il pittore messinese, con il movimento “Corrente” di cui fu tra i fondatori, infuse la sua poetica di un respiro europeo vicino all’Espressionismo. Uno strumento espressivo che si rivelò perfetto per restituire un’immagine autentica dell’isola, fatta di volti scavati e vite segnate da un perenne senso di sconfitta

«L’arte comincia dalla resistenza: dalla resistenza vinta. Non esiste capolavoro umano che non sia stato ottenuto faticosamente». Quando André Gide, premio Nobel per la letteratura nel 1947, affidò le sue riflessioni a queste affascinanti righe, dinanzi agli occhi, probabilmente, avrà avuto alcune delle opere più significative della storia dell’umanità. Forse la celebre scultura del Gruppo del Laocoonte, in cui le ipnotiche spire di un mostro marino trattengono drammaticamente colui che, secondo l’Eneide, venne punito insieme con i suoi figli da Atena per aver messo in guardia i Troiani sullo stratagemma del cavallo; forse, ancora, gli esempi del non finito michelangiolesco, in cui il marmo sembra lasciare che la propria anima si sdoppi tra grazia e prigionia, o gli scorci parigini catturati dagli impressionisti, che tanto, almeno inizialmente, furono osteggiati. Ma certo lo scrittore francese, nell’associare l’etereo valore etico dell’atto artistico alla carnalità dello sforzo umano, aveva bene in mente anche la resistenza dei popoli. Il rapporto diretto, il riflesso immediato che sussiste tra espressione visuale e ricerca della libertà, tra limite e desiderio d’infinito, tra sottomissione e reazione. È in questa eterna dualità, nei loro conflitti mai eternamente sopiti, che l’arte ha saputo trovare un’altra delle proprie chiavi identitarie. Tanto più in una terra come quella siciliana, nella quale il concetto di resistenza, più che assurgere a principio filosofico, si è spesso rivelata un’autentica necessità esistenziale. Una malinconica normalità di volta in volta camuffata diversamente dallo scorrere del tempo. Di questa attitudine alla lotta, ad accogliere senza battere ciglio le spigolosità della vita, testimone d’eccezione è stato il pittore messinese Giuseppe Migneco, egualmente caro a Sciascia e a Quasimodo (che gli dedicò pure una sorta di volume monografico) e simbolo egli stesso di una orgogliosa e brillante indipendenza intellettuale. Nelle sue opere, infatti, militanza e osservazione delle vicende isolane si saldano perfettamente in uno stile inconfondibile e in una poetica senza compromessi. Neppure all’ombra della stringente autorità fascista.

Fu sotto il regime, del resto, che l’arte di Migneco giunse alla sua piena maturazione. In particolare quando, dopo essersi trasferito a Milano agli albori degli anni ’30, nel 1937 fu tra i fondatori del movimento Corrente, destinato a lasciare un’impronta decisiva nella cultura post-bellica. Come lo stesso nome suggerisce, il movimento fu votato ad una profonda idea di rinnovamento, di contaminazione, di apertura alle nuove tendenze estere che sempre più spazio stavano trovando nell’immaginario e nell’iconografia italiana. In barba al principio autarchico fascista, Migneco infuse così la sua poetica di un richiamo marcato all’Espressionismo, senza disperdere, per altro, l’enorme influenza di Van Gogh. Ma questa scelta, più che trasferirne la produzione sul piano di un’interiorità astratta, si rivelò come strumento ideale al servizio di un realismo crudo, schietto, sinceramente ricercato. Nei lineamenti dei volti caricati all’estremo e che ricordavano vagamente certi tratti di Munch o di Kirchner, negli accesi e talvolta innaturali accoppiamenti cromatici, nei contorni ruvidi e deformati l’artista siciliano intravide la possibilità di incastonare la sua visione disincantata dell’isola. Negli occhi affranti di una raccoglitrice di limoni arsa dalla canicola, nella posa stanca e smorzata di un pescatore adagiato sulla riva o, ancora, nella cupa e spenta spossatezza di un contadino adagiato sulle asperità di un muretto, Migneco seppe cogliere l’essenza ancestrale della sicilianità. Il senso di una lotta che si esplica continuamente con sé stessi, con le proprie debolezze, con la propria sorte eternamente nelle mani di qualcun altro. In quei corpi preda di una endemica tristezza, di una inerzia fatale, rifletteva tutta l’opacità di una vita di sfruttamenti, di aridità. Per lungo tempo, senza retorica, senza alcun pietismo, carico piuttosto di una fulminante aderenza ad una difficile realtà Migneco fu la loro voce. Il riverbero del loro sguardo tagliente. Ribelle alle convinzioni come ribelli furono i suoi soggetti.

Quel senso di assedio interiore, di necessaria constatazione dell’ingiustizia, lo accompagnò per tutto il resto della sua vita. Nel corso della quale la fama internazionale non si fece attendere. Senza mai, tuttavia, intaccare quell’idea verace di Sicilia. Annidata ancora lì, in una ruga, in una mano, in una schiena consumate dal lavoro.

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Giornalista, laureato in Lettere all'Università di Catania. Al Sicilian Post cura la rubrica domenicale "Sicilitudine", che affronta con prospettive inedite e laterali la letteratura siciliana. Fin da giovanissimo ha pubblicato sulle pagine di Cultura del quotidiano "La Sicilia" di Catania.

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