L’esilio, le lacrime, la rinascita: Ibn Rashiq, il genio di un poeta salvato dalla Sicilia

Cresciuto in Tunisia, tra gli straordinari intellettuali della città di Karouan, conobbe un’ascesa fulminante come cantore di corte. Ma altrettanto rapida fu la sua caduta: prima esiliato a causa della sua arte e del suo desiderio di libertà, dovette poi assistere alla distruzione del suo luogo natale. Il destino lo condusse nell’isola, grazie alla quale compose uno dei testi più preziosi dell’antichità

Esiste una profonda consequenzialità sentimentale tra la condizione dell’esilio e lo sgorgare della poesia. Quasi come se il fardello del distacco conoscesse quest’unica ed indispensabile cura per alleviare il dolore del proprio incedere. È una questione, in fondo, di confini dell’anima: più questi si fanno angusti, soffocanti, oppressivi, tanto più il vento malinconico dell’ispirazione si leva sul cuore del pellegrino di turno. A muoverli, questi girovaghi della parola, è l’apparente irraggiungibilità della loro prossima meta: un amore da dimenticare o da coltivare in sogno, una patria da lasciare senza certezza d’approdo, un’identità da ricostruire persino a sé stessi. Ecco che la poesia, allora, caricata di questa umanissima indeterminatezza, finisce per rievocare la sua origine: per coincidere col canto, con le corde vibranti di un assolo in cerca di conforto. Non esiste epoca che non abbia riaffermato questo nesso. Ovidio, Dante, Shelley, Hugo, Ungaretti, Neruda, Kundera: sono solo alcuni dei più celebri interpreti di un lungo elenco di esuli. Lungo il quale, talvolta, è difficile scorgere alcune affascinanti storie: perdutesi, forse, nel tempo distante del loro mistero. Storie a sfondo siciliano come quella di Ibn Rashiq, straordinario erudito di lingua araba che proprio nell’isola – di cui sorprendentemente incrociò il destino – elaborò una preziosissima enciclopedia della poesia. Una riflessione non certo comune per l’epoca – l’XI secolo – che spazia con agio tra aspetti di stile e di contenuto e che, semmai ce ne fosse ulteriormente bisogno, dimostra quanto la Sicilia rappresentasse un fertilissimo terreno di multiculturalità. Anzi, fu proprio l’esperienza maturata tra i siciliani a dare all’autore l’agio e lo spunto intellettuale per comporre il Libro della colonna. Perché tra i paesaggi e i vicoli arabeggianti di Mazara egli aveva saputo trovare quella casa tanto agognata e a lungo creduta per sempre perduta.

Benché nato in Algeria nell’anno 1000, infatti, Ibn Rashiq era cresciuto in Tunisia, precisamente nella città di Kairouan, allora conosciuta come uno dei principali centri culturali del Mediterraneo. Tra scienziati, astronomi, architetti e letterati – una ricchezza che ha spinto l’UNESCO ad eleggerla bene dell’umanità nel 1988 – il giovane poeta maturò il suo genio attorniato da una folta schiera di prestigiosi maestri. Il suo prestigio conobbe un’ascesa vertiginosa, al punto che nel 1026 venne ufficialmente nominato poeta di corte presso il governatore della provincia Al-Muʿizz ben Badis. Eppure, la sua caduta fu altrettanto sfolgorante. Nel 1051 conobbe il primo esilio, verso l’Egitto, causato da alcuni suoi versi ritenuti fin troppo irriverenti nei confronti di un magistrato. Poi, nel 1057, quello definitivo. I suoi numerosi tentativi di rientro nella città natale si infransero contro l’attacco di alcune tribù berbere, che la rasero quasi interamente al suolo. Ne scaturì una struggente elegia: «O Qayrawan! Cosa ne è stato del tuo splendore? Dopo la nostra separazione, disperso è stato il tuo filo di perle. Tu eri la madre della terra, a Est e a Ovest, prima che il Fato cancellasse i tuoi colorati ornamenti». Nel medesimo anno il poeta giunse a Mazara. Il suo girovagare aveva finalmente trovato posa. Alcune fonti sostengono che proprio in Sicilia, nel 1064, egli trovò una serena morte. Altri sostengono che, poco prima della dipartita, egli trovò le forze per un ultimo viaggio in Tunisia, per rendere omaggio al defunto protettore che lo aveva catapultato tra i grandi. Ciò che è certo è che la sua permanenza nell’isola fu determinante per portare a compimento la sua ricerca poetica. Mescolando sapientemente le suggestioni della patria che lo aveva adottato e l’eredità trattenuta dalle lezioni dei propri mentori, Ibn Rashiq scrive: «Un mio scolaro una volta mi disse che sono quattro i cardini del fare poesia: desiderio, paura, commozione e rabbia. E in effetti uno dei miei maestri era solito sostenere che la poesia può nascere soltanto dal verificarsi di una di queste emozioni». E il nostro tali emozioni le aveva vissute tutte insieme: «Si può chiedere qualcosa di più ad un poeta quando ha in cuore un qualche desiderio? Anche quando avesse esaurito i generi della poesia, e ce ne sono comunque innumerevoli, i suoi ciò che fatto e ciò che ha scritto non lo saranno mai». Come a dire che, ogni oltre sventura, la poesia non potrà mai soccombere.

Né mai potrà farlo il ricordo di chi alla poesia ha dedicato tutto. Anche quando quel tutto sembrava tramutarsi in niente. Il ricordo di un tunisino e delle sue lacrime d’inchiostro. Asciugate e messe su carta dal volto rassicurante della Sicilia.

(Immagine realizzata con Adobe Firefly)

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Giornalista, laureato in Lettere all'Università di Catania. Al Sicilian Post cura la rubrica domenicale "Sicilitudine", che affronta con prospettive inedite e laterali la letteratura siciliana. Fin da giovanissimo ha pubblicato sulle pagine di Cultura del quotidiano "La Sicilia" di Catania.

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