Quello che i libri di
storia non dicono:
Verga, Libertà e la memoria coraggiosa
C’è un paese, nella nostra bella Sicilia, che recentemente si è distinto per aver compiuto un atto inusuale e coraggioso che promette di essere il primo di una serie consistente. Il paese in questione è Rometta, nel messinese, e la rivoluzione che ha destato scalpore ha a che fare con la toponomastica: per decisione del sindaco e della sua amministrazione, infatti, la via che precedentemente era intitolata a Nino Bixio, braccio destro di Garibaldi, da qualche giorno esibisce una nuova targa con la dicitura “Via vittime dell’eccidio di Bronte”. Tale modifica apportata alla denominazione stradale ha lasciato il segno presso l’opinione pubblica isolana per una duplice ragione: innanzitutto, perché non è frequente che una cittadinanza o una popolazione, specie nei piccoli centri, siano ben disposte a vedere sostituiti i nomi delle arterie che percorrono orgogliosamente ogni giorno e dentro le quali, specchiandosi, possono tenere viva la memoria di ciò che sono stati; in secondo luogo, e soprattutto, perché la decisione del comune peloritano rappresenta una vera e propria operazione di convinto revisionismo storico. Atto rivoluzionario, sì, ma con un grande maestro a fare da apripista: Giovanni Verga con la sua novella Libertà.
«Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: – Viva la libertà! –». Comincia così, con i contadini in fermento per la promessa di abbattimento delle ingiustizie sociali, il racconto verghiano incluso nella raccolta Novelle Rusticane del 1883 e afferente proprio ai fatti di Bronte del 1860. Fatti divenuti, nella memoria siciliana e nazionale, tristemente noti per la crudezza della ribellione popolare prima e della repressione militare poi. Lo stesso Verga, con la sua impareggiabile maestria, con una scrittura dal ritmo incalzante, si premura di trasmettere la follia collettiva che si impossessò del ceto contadino, furiosamente avverso ai nobili baroni e convinto che, una volta fatta piazza pulita, avrebbero ricevuto maggiori porzioni di terra da coltivare. Peccato che la storia non si sviluppò esattamente in questo modo. Due massacri, spesso fin troppo taciuti, insanguinarono l’epopea risorgimentale in Sicilia. Due atti di violenza indicibili, l’uccisione del ceto nobiliare e la conseguente punizione di Bixio, eppure nati da motivazioni ben diverse: uno frutto dell’illusione, della disperazione, della disgrazia; l’altro, più subdolo, frutto dell’inganno e dell’opportunismo garibaldino.
Il filo conduttore che ci riporta ai nostri giorni, al cambio di targa di Rometta, getta nuovamente luce, in maniera significativa, sulle pagine buie della storia recente siciliana, in cui i deboli – e forse fu proprio questo a stuzzicare il genio verghiano – furono vittime di una riprovevole manipolazione. Riprovevole perché offriva la possibilità, a chi non l’aveva mai sperimentata, di provare un sentimento nuovo e gratificante: la speranza. L’esempio dato da Rometta, che ha annunciato la volontà di rivedere anche i luoghi dedicati a Garibaldi in persona, nel piccolo di una comunità poco nota ha attivato un percorso inedito, in cui il sangue versato dalla giustizia sommaria di Bixio può essere riscattato con l’orgoglio di una memoria controcorrente, con la demistificazione di atti tutt’altro che eroici. Bixio partecipò a quella spedizione che propiziò, non c’è dubbio, l’Unità: ma lo fece anche sulle spalle degli innocenti che si auguravano un vero cambiamento. Lo fece sulla pelle di molti siciliani, puniti perché, una volta di più, avevano creduto che la libertà potesse esistere. Con le parole di Verga: «Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: – Dove mi conducete? – In galera? – O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà!»