In un casale siciliano, l’Occidente incontra l’India grazie al flauto bansuri di Chaurasia

Nel bailamme delle lunghe code di automobili e dell’andirivieni di persone, c’è un quadrato di terra dove si può respirare il forte odore di curcuma che risale da una grossa padella colma di olio e avvolge le foglie degli alberi, mentre i cinguettii si fondono con il suono del flauto bansuri (o flauto di bambù), aerofono antichissimo, strumento prediletto del dio induista Krishna. D’India, in realtà, ci sono solo i fichi: non siamo a Jaipur, siamo a Femminamorta, tenuta ottocentesca a pochi chilometri da Giarre. In una taverna dell’antico casale che domina la tenuta c’è una ventina di persone scalze, sedute per terra, riunite a cerchio per suonare all’unisono il flauto di bambù. Tante teste dai capelli lunghi legati, perché nel caldo di luglio sembra sciogliersi pure il legno di quegli insoliti tubi perforati. E si sciolgono anche due cubetti di ghiaccio sulla pelle del maestro Hariprasad Chaurasia, compositore indiano e virtuoso del flauto bansuri

Cosa ci fa una leggenda della musica classica indiana a Femminamorta? Chaurasia, per la prima volta in Sicilia, si trova alla guida di un workshop di flauto bansuri. L’iniziativa è parte del Marranzano World Fest, rassegna che dal 2005 porta in Sicilia artisti internazionali promuovendo uno scambio aperto tra culture attraverso la musica, che quest’anno si è concentrata sugli aerofoni. Studenti di ogni età e nazionalità sono così accorsi per beneficiare degli insegnamenti del vecchio saggio. Sono qui in ritiro spirituale e non faranno il checkout prima di domenica, quando il workshop sarà terminato. Tra una lezione e l’altra mangiano tutti insieme le pietanze preparate dai cordialissimi cuochi, meditano in presenza del guru, oppure – perché no? – fanno un bagno nella piscina che si nasconde nell’immenso giardino. 

Le lezioni con Chaurasia si svolgono seguendo il metodo di apprendimento indiano: il maestro esegue una frase e il gruppo la ripete nel modo più somigliante possibile. La sfida principale, per un occidentale, è quella di staccarsi dal bisogno di leggere la musica, per rapportarsi a essa con spontaneità e imparare a creare solo con l’orecchio. Domanda del maestro, risposta del gruppo all’unisono: così la musica si espande per più di due ore filate, senza soluzione di continuità. 

Nel suono di quei venti flauti c’è tutta la sacralità di una pratica che va oltre la musica. «La musica indiana mi ha migliorato come persona», racconta uno dei partecipanti al workshop. Ma non un partecipante qualunque: il suo nome è Nicolò Melocchi, docente al conservatorio “G. Verdi” di Milano e massima autorità della musica indiana in Italia. «C’è un fattore di autodisciplina e di rapporto con la bellezza dell’armonia – continua Melocchi – perché le proporzioni tra suoni sono le stesse che guidano la natura». Le musiche antiche sono basate su aspetti cosmologici, ma la musica classica indiana, in particolare, è definita «una via della liberazione per congiungere il sé individuale al sé universale». Melocchi lo conosce bene, Chaurasia. L’ha seguito fino a Vrindavan, nel suo gurukul, luogo dove non si tengono solo le lezioni, ma dove l’allievo vive con il maestro, cucina, lava e impara la disciplina. Perché, secondo questa filosofia di vita, l’anima deve essere messa nelle condizioni di poter ricevere la musica, deve essere raffinata e superare i condizionamenti della mente. 

L’esperienza del guru indiano sull’isola volge quasi al termine. Si approssima infatti il momento della sua esibizione per il pubblico catanese proprio negli spazi del casale che chiuderà questa edizione del Festival promosso da MoMu Mondo di musica e Associazione Musicale Etnea. Ad accompagnarlo, nella suggestiva performance che si svolgerà alle 5:30 del mattino, saranno alcuni suoi allievi, tra cui lo stesso Melocchi. A guidarlo nella sua improvvisazione, sarà ciò che più l’ha colpito della terra sicula: «A ispirarmi in questi giorni – racconta – sono stati il monte Etna e il cibo, in particolare la granita ai gelsi». Ma soprattutto le persone che ha conosciuto nell’isola: «I siciliani somigliano agli indiani, perché mangiano tutti insieme, ridono rumorosamente e parlano col cuore».

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Musicista, laureato in pianoforte al Conservatorio “Vincenzo Bellini” di Catania. Studente di Comunicazione della Cultura e dello Spettacolo presso l’Università di Catania, pubblica sulle pagine di Spettacolo del quotidiano "La Sicilia" ed è autore e conduttore di “Bellini Café”, podcast ufficiale del Conservatorio di Catania.

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