I riti di un paese dove il tempo non esiste: Antonio Castelli e la malinconia della provincia
Nato a Castelbuono, lo scrittore isolano ha saputo cristallizzare con brillantezza e sentimento le liturgie quotidiane di un piccolo borgo in “Passi a piedi passi a memoria”. I pettegolezzi sulle corna, le piazze riempite di strani vocii, il biliardino con le stecche rumorose, gesti e parole che si ripetono ossessivamente. Tutto per riempire il vuoto della noia. La paura che presto qualcosa giungerà impetuoso a stravolgere uno stile di vita che forse, già, non c’è più
In uno dei suoi racconti più simbolicamente legato ai luoghi natii, ovvero La langa, Cesare Pavese scriveva: «Io ce l’avevo nella memoria tutto quanto, ero io stesso il mio paese: bastava che chiudessi gli occhi e mi raccogliessi… per sentire che il mio sangue, le mie ossa, il mio respiro, tutto era fatto di quella sostanza e oltre me e quella terra non esisteva nulla». Sapeva perfettamente, lo scrittore di Santo Stefano Belbo, che quella dimensione borgatara, microcosmica dell’esistenza finisce sempre per stagliarsi sul fondo del cuore come fanno i relitti che lentamente si incagliano negli abissi. Si consumano, quei ricordi. In parte perfino si dissolvono. Eppure, chissà com’è, mantengono una loro concreta riconoscibilità: nei colori, nelle forme, nei sentimenti che sono stati loro associati. E si specchiano: nel tempo che li ha sommersi di immagini che non gli somigliano. Nel mare delle cose che non ci sono più. È la vita di periferia. Il mondo sospeso delle infanzie e delle ingenuità. Quello che ogni tanto riaffiora in una chiacchiera, nel bislacco e scomposto rimembrare di riti e abitudini. Nella tenera e sincera nostalgia delle certezze che avevano il volto sempre uguale dei vecchi compaesani. Gli stessi che, ignari a sé stessi della propria condizione, ripetevano ossessivamente gli stessi gesti, le stesse espressioni biascicate, i medesimi sguardi accesi di pietà e di rancore. A caccia di questi paesi, diversi ma mai così tanto da non essere intimamente apparentabili, la letteratura si è spesso ritrovata ad andare. A percorrere i loro vicoli cotti dal sole e dal buio, le piazze affollate di silenzi, i balconi dove i panni somigliano a bandiere che sventolano un arrivederci. Da Nord a Sud. Dalle nebbiose langhe alle Madonie di Castelbuono. Qui ebbe infatti i suoi natali Antonio Castelli, scrittore siciliano del ‘900 che seppe ritrarre con malinconico e ironico distacco la vita dei piccoli centri e dei suoi abitanti. Il risultato di queste riflessioni fu Passi a piedi passi a memoria (Sellerio, 1985), una sorta di museo delle cere capace di cristallizzare in poco meno di cento pagine usanze e contraddizioni della provincia. Così come il senso nascosto della sua frenesia.
Ciò che lo sguardo di Castelli si impegna a catturare appare immediatamente – e contemporaneamente – fuori dal tempo e bloccato dentro al tempo. Echeggia lo scoccare delle stecche sul biliardo, il tintinnare dei bicchieri sul bancone di un bar dove i soliti noti si ritrovano a commentare gli stessi futili argomenti. E poi ancora la voce tremenda e familiare dell’anziana Zia Marianna che sembra richiamare tutti all’ordine, cortili, giardini e marciapiedi in cui si sussurrano storie di corna e di fuitine, il lento declino di monumenti dall’antico splendore che sinistramente anticipa l’inevitabile destino che attenderà il paese stesso alle soglie minacciose della modernità. È un paese, quello di Castelli, in cui classicamente tutti conoscono le sorti di tutti. Niente sfugge e niente si nasconde. E quando quello stesso niente si rifiuta di tirare fuori la testa dalla sabbia, ecco che allora la fantasia si prende l’impegno di ravvivare le strade. Perché, ci dice tra le righe l’autore, è la stasi, l’inerzia, il non saper che fare il peggior nemico della vita di paese. È la noia leopardiana, l’inoccupazione dell’anima che lascia posto all’avanzare degli anni. Sono dei riempitivi, dei palliativi, quelle liturgie della quotidianità che è così difficile dismettere. Persino la morte, sottolinea Castelli, attraverso i «campanili che versano rintocchi funebri» – e i pomposi e scenografici funerali a cui chiunque, non si sa a che titolo, sceglierà di partecipare – può servire a distogliere la mente dal vuoto del tedio. Dal pensiero che prima o poi il paese non sarà più tale.
E così, ancora, la provincia si aggrappa a sé stessa. All’unica identità che le è possibile assumere. Agli inconsci figuranti che la popolano, che indossano maschere e costumi al di là della loro comprensione. Che guardano al presente come se fosse l’unico piano del vivere possibile. Che in un bar, davanti al Municipio o seduti sul ciglio di una strada riempiono di passatempi giornate sempre più brevi. Senza correre mai il rischio di fermarsi.
Foto in copertina: Ellie Cooper | Unsplash
