Bufalino, la Targa Florio e “La morte di Giufà”: quando finisce il tempo delle fiabe

Nella raccolta “L’uomo invaso” lo scrittore comisano offre una versione inedita del popolare personaggio siciliano: anziano, acciaccato, mendicante, trasposto agli inizi del ’900, in un mondo che non è il suo e che lo rifiuta, simbolo di una purezza e di un’autenticità che soccombono al travolgente potere della modernità. Al quale nemmeno la fantasia dell’ultimo e più celebre tra i giullari può resistere

Com’è rassicurante, il mondo delle fiabe! È un liquido amniotico nel quale personaggi, intrecci, sospiri si cristallizzano in forme millenarie, in sculture di significato immutabili. Spesso, alle figure che lo animano non serve nemmeno un nome, nemmeno un volto: solo un titolo, una fugace pennellata d’inchiostro, una battuta appena accennata. E quando il loro nome emerge, intrufolandosi nel magico incedere della storia, è perché tutti, in quell’appellativo, in quel simbolo di una collettività aggrappata ad un valore riconoscibile, possano riconoscersi. E poi, quando tutto si conclude, si eclissano, si offrono come in un sacrificio: i loro moti si infrangono sul margine dell’ultima pagina. Ciò che hanno provato, ciò che li ha mossi, si infrange sul muro invalicabile della carta. Nessuno sa più niente di loro, assorbiti come sono dalla morale generale della commedia che hanno interpretato. Nessuno può più seguirli, fuori dall’eterno, incantato ciclo di cui sono stati protagonisti. Incatenati ad un’unica narrazione. Ma cosa succederebbe se qualcuno, un giorno, li strappasse a quella dimensione? Se un dirigibile tendesse loro una fune e li portasse nell’ignoto altrove del nostro tempo? Cosa avverrebbe, insomma, se il tipo diventasse carattere? Se l’immagine diventasse corpo? Il re, probabilmente, diverrebbe uno straccione; il cavaliere e il suo destriero folli e bislacchi viaggiatori; le principesse, per una volta, andrebbero ansiose a caccia d’amore; i maghi e le streghe si esibirebbero ai bordi delle strade, mentre un reel immortala gli sparuti passanti e il tintinnare delle loro monetine. E i giullari, da festosi acrobati, si ritroverebbero come disperati emarginati. Come vagabondi abbandonati del giorno che fu. Si ritroverebbero come il Giufà di Gesualdo Bufalino, l’uomo innocente e autentico per antonomasia che, catapultato in un tempo non suo, conosce la miseria, la solitudine senza riso. Di lui lo scrittore comisano ci fornisce una versione inedita, una declinazione aliena da ogni stereotipo popolare. Una controfigura vagamente riflessiva, immalinconita, surclassata da un profondo senso di straniamento.

«Da quanto tempo gli pesa questa vita pellegrina di salire e scendere e strisciare, e mangiare polvere di trazzera, e bere acqua di truogolo come i maiali; con sonni di ventura, che non sai quando cominciano e quando li romperà sul più bello un forcone di contadino. Da quanti anni?»

“La morte di Giufà”, da “L’uomo invaso (1996)

Non è la sua vita, ciò che Bufalino ci mostra. Bensì ciò che quella vita ha comportato. E, proprio in fondo, la sua dipartita. La morte di Giufà, infatti, si intitola il racconto contenuto nella raccolta L’uomo invaso (1996), nel quale solo un elemento il protagonista, ormai fiaccato dall’età e dalla fatica, porta con sé dal suo passato fiabesco: la fame. «Giufà strinse gli occhi, li chiuse.  Avrebbe provato meno fame, così. Sapeva da un pezzo il segreto di addormentarla, la fame, sin da quando, ragazzo, aveva preso a sentirsela in corpo come una bestia intrusa, una volpicina che lo rosicasse da dentro ma che sarebbe bastato un fischio a stornare. Così per anni e anni, pascendosi d’aria.  Ma ora è vecchio davvero, Giufà.  Né c’è miraggio che valga a ingannare la volpe grigia che gli morsica la pancia. Che aspetti, dunque, Giufà?  Non hai udito or ora starnazzare un pollaio qui accanto, dietro quel muro di cinta?  Non hai udito levarsi dall’ombra la lusinga d’un coccodè?». È ormai un mendicante, Giufà. Lontano parente del ragazzo che irritava – ma un po’ faceva anche sorridere – la madre quando alla richiesta di cucinare due fave ne aveva davvero messe due in pentola. Un uomo dei campi, temprato dalle intemperie, ma mai troppo inacidito per non guardare al mondo con lo stupore di un fanciullo. Per sognare di cavalcare le stagioni, di afferrare gli astri: «Da quanto tempo gli pesa questa vita pellegrina di salire e scendere e strisciare, e mangiare polvere di trazzera, e bere acqua di truogolo come i maiali; con sonni di ventura, che non sai quando cominciano e quando li romperà sul più bello un forcone di contadino. Da quanti anni? Eppure, alla fine dei conti, non è stata una brutta vita, per come gli è capitato di viverla, di stagione in stagione con piogge e soli, caldi e geli, per aie di campi e vanedde di paese, con tante voci d’uomo che gli tornano ora a sussurrare familiarmente dentro le orecchie. Dicono ch’è sciocco di mente, Giufà, ma non è vero oppure è vero a metà. Perch’egli crede con abbandono all’evidenza e all’innocenza delle parole: se designano una cosa, per lui sono quella, né più né meno. Lo stesso con le cause e gli effetti, di cui scorge solo i nodi contigui, mentre gli sfugge l’ordito: se porta l’asino a bere e vede la luna, che si specchiava nel pozzo, scompa­rire d’un tratto alla vista, è all’asino che dà la colpa d’averla bevuta e lo batte finché la luna si sprigioni dalla sua nuvola e torni a brillare nell’acqua. “Lo dicevo”, si vanta allora con l’asino, “che te l’avrei fatta sputare!”».

Il sonno è ormai destato. Quella notte, stranamente più lunga delle altre, lo inquieta. Lo stesso fa il crescente strepitio dell’asfalto. In lontananza due fari ammiccano. Lo ammaliano. Lo attirano. È l’ultimo atto della sua bambinesca purezza

Ma è l’inizio del ‘900. Il vociare armonioso che confortava le sue orecchie si è tramutato in disordinato chiacchiericcio. La terra amara – ma talvolta piacevolmente placida – che ha arato per decenni ha cominciato a tremare per cause che sfuggono alla sua comprensione. Non sa, lui che di un’auto non ha mai visto neppure un bullone, che la Corsa Grande sta preparando il suo passaggio. È troppo impegnato a studiare un modo per arraffare una gallina. Deve sopravvivere, Giufà. L’occasione propizia si presenta. Ma l’affanno e la nostalgia lo assalgono ancora: «Giufà riposa dietro una siepe di more, con tre uova in un fazzoletto e il peso d’una faraona strozzata che gli gonfia la pettorina. Mentre riposa pensa ed entrano nel suo pensare figure di lontananza, delle ragazze di gioventù, quando andavano a due a due, serrate nelle mantelline di saia, e ciuciuliàvano come passere. Ora il vecchio Giufà sta sdraiato dietro una siepe e non sa più che fare, ora che s’è ripassata per intero la carta giubileana della sua vita.  Aspettando che spunti l’alba, lo stradale, dietro la siepe, è invisibile, ma pare abitato, scosso da zoccoli strani.  Chissà che cosa, una cosa pesante, di tanto in tanto lo squassa. Giufà ne ha sentito parlare, di questi carri di ferro che corrono soli su quattro ruote, senza un mulo o cavallo che li tiri; e fanno rumore, e mandano lampi». Il sonno è ormai destato. Quella notte, stranamente più lunga delle altre, lo inquieta. Lo stesso fa il crescente strepitio dell’asfalto. In lontananza due fari ammiccano. Lo ammaliano. Lo attirano. È l’ultimo atto della sua bambinesca purezza. «Allora corre incontro al nemico e non sa perché, corre incontro al diavolo a braccia aperte (Giufà, fermati, dove vai? quell’ingegno di ferro non t’appartiene, l’hanno inventato gli altri contro di te, contro la tua felicità rusticana …), corre incontro al diavolo senza segnarsi, sente con ira e stupore le quattro zampe impennarglisi sopra e ricadergli sul petto, schiantargli le ossa, sbriciolargli insieme alle costole, nascosto fra pelle e camicia, il bottino d’una gallina…Era il 6 maggío 1906, giorno della prima Targa Florio, ma Giufà che ne sapeva?».

Il tempo delle fiabe è andato per sempre. Il progresso, lo sferragliare della modernità, il turbinio di una sfrecciata in curva hanno travolto Giufà e ciò che rappresentava. Il mondo non ammette altri occhi, se non i propri. Non ammette sogni, se non quello di arrivare primi a scapito degli altri. E primo, il povero Giufà, non ha mai voluto esserlo. L’ultimo, semmai. L’ultimo dei giullari.

(Immagine in copertina realizzata con Image Bing Creator)

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Giornalista, laureato in Lettere all'Università di Catania. Al Sicilian Post cura la rubrica domenicale "Sicilitudine", che affronta con prospettive inedite e laterali la letteratura siciliana. Fin da giovanissimo ha pubblicato sulle pagine di Cultura del quotidiano "La Sicilia" di Catania.

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