Le fantasie dell’uomo perduto: Francesco Guglielmino, il poeta della nostalgia
Del poeta nato ad Aci Catena molti ricordano la prestigiosa carriera accademica da grecista e latinista. Ma è con la raccolta poetica in siciliano “Ciuri di strata” che il nostro conterraneo ha dato voce alla propria anima. Un’anima che nelle cose passate trovava al contempo afflizione e consolazione. E che su questa dualità così intensa seppe modellare ogni suo verso
Sulla strada del poeta, prima o dopo, il rimpianto è destinato a manifestarsi. Rimpianto per il tempo andato, per le voci perdute nel caotico miscuglio dello schiamazzo. Per la bellezza inerme, consunta, bistrattata dagli stessi che l’avevano originariamente esaltata. Per la natura immalinconita, sbiadita, ridotta in schegge di vetro che feriscono i passanti ancora curiosi. Giunge un momento nel quale la poesia è forse, essenzialmente, la cronaca appassionata di ciò che non è. O non è più. Un’aspersione in qualcosa di inafferrabile, quasi invisibile, che si sforza persino di risultare indicibile. Eppure, non è solo amarezza che gli avvinghia il cuore. Ma anche un senso soffuso di dolcezza, di crepuscolare piacere, un timido desiderio di tornare laddove già, una volta, il piede ha saputo lasciare la sua orma. Ogni viaggio a ritroso, in fondo, non cerca che la scintilla di un nuovo inizio. Si guarda al passato quando il presente non è alla sua altezza, il mondo smette di essere leggibile, quando lo sprofondo è tale solo che un passo indietro può garantirne due in avanti. Un po’ come il Gatsby di Francis Scott Fitzgerald, che annaspa senza posa tra le svariate dimensioni di sé stesso: «La sua vita – scrive il romanziere americano – era stata disordinata e confusa da allora, ma se riusciva una sola volta a ritornare a un certo punto di partenza e ricominciare lentamente tutto daccapo, sarebbe riuscito a capire qual era la cosa che cercava». Ed è un po’ così, come un cercatore dell’anima, che potremmo immaginare il nostro conterraneo Francesco Guglielmino, nato ad Aci Catena nel 1872 e straordinario classicista che a lungo insegno pressò l’Università di Catania. La sua fama di poeta, tuttavia, fu legata al siciliano, lingua con la quale seppe esprimere tutta la sensibilità di un uomo affranto dalla perdita dell’innocenza, dalla prospettiva della fine, dalla fragilità di quella natura alla quale, nonostante tutto, non poteva fare a meno di elevare il proprio canto.
E già il titolo della sua raccolta-simbolo, Ciuri di strata (pubblicata originariamente nel 1922 e poi riedita da Sellerio nel 1978 con le prestigiose note di De Roberto, Brancati e Sciascia) suggeriva questo senso di rarità, di transitorietà, di resistenza dell’afflato lirico dinanzi a ciò che sfreccia, che lascia indietro, che dimentica in maniera inopinata. Come le feste, le grandi celebrazioni comunitarie di paese, che si infiammano repentinamente e poi, con altrettanta agilità, si spengono, fino al punto da depositarsi a terra, come sedimenti, come relitti di sentimenti scaduti. Come giostre senza musica, impalate, polverose, scolorite. Un tema ben presente, ad esempio, in una lirica come Scunfortu:
«Ah! Quannu vidu ammenzu a ‘na chianura
Francesco Guglielmino, “Scunfortu”
l’ultima cerza d’un tagghiatu voscu,
o d’un casteddu sdurrupati mura,
o tuttu sciusu ‘n’alianti chioscu;
si di na festa restunu l’antinni,
fanali rutti e du’ banneri laschi,
o ‘ntra nidu vacanti ci sù pinni
‘ncagghiati ancora ammenzu di li fIaschi;
non sapiti chi pena ca mi pigghiu,
chi sensu ca mi velli di scunfortu,
ognuna di sti cosi l’assumigghiu
a lu passatu non ancora mortu!»
Amava aggrapparsi, Guglielmino, a quelle impressioni traballanti, sempre in bilico ma sempre presenti. Al passato che tormenta, ma che contestualmente finisce per cullare. Ai capitoli che si vorrebbero chiudere a malincuore, per non soffrire, e che puntualmente ritornano con prepotenza. Che sgomentano con la loro deformazione, inquinando i ricordi, inchiodando l’immaginazione ai suoi limiti. Putissi, in questo senso, è quasi un manifesto di poetica. Un giro di valzer tra vecchie, decorate ombre di felicità.
«Putissi pri miraculu divinu
Francesco Guglielmino, “Putissi”
turnari comu quannu era carusu
quannu pri mia la vita era n’giardinu,
menzu apertu e menzu chiusu!
Turnari cu li sensi di ‘na vota,
cu ddi limpidi occhi ancora puri,
e cu la fantasia libera e sciolta
vìdiri cosi belli a tutti l’uri!
Ma lu giardinu addivintò ‘na sciara
d’ardichi ‘nfrattinata e di ruvetti,
si ci crisci ‘na ciura è troppu rara,
e si la cogghi poi non ti diletti.
‘Ntra sta sciara furrìu comu ‘n’aceddu
cu l’ali rutti ca non pò vùlari,
e cca ‘ntra carammuni e spicuneddu
lassu li pinni ca mi su chiù cari».
Ma la poesia, quella no, di restare impigliata non ne vuole sapere. E risuona di nostalgia. Sorvola le realtà frammentate, i sogni decaduti, le gioie scordate. Li rivitalizza, anche solo per qualche istante. Li riporta alla mente. Là dove il loro tramontare non è mai eterno.
(Immagine in copertina realizzata con Bing Image Creator)
